Una scuola di musica…evocante
Ma mi interessano più le cose belle e le belle giornate.
Ho frequentato, e tuttora frequento, una scuola di musica piena di insegnanti che mi hanno trasmesso ognuno una cosa diversa.
Ricordo che c’era un tipo strano di nome Franco Battiato che molti chiamavano Maestro, nonostante lui si schermisse appena sentiva questa parola. Maestro, però, lo è stato veramente perché mi ha insegnato tante di quelle cose che ci ho scritto su un libro. Ho imparato da lui come comporre musica e parole, a saper dare l’abito giusto per ogni composizione, da quello orchestrale a quello rock a quello elettronico. Ho imparato a spaziare e a metterci molto di mio, senza avere paura di osare, visto che per lui il rischio era l’antidoto migliore alla noia delle ripetizioni. Ma soprattutto ho imparato a conoscere me stesso, e ho capito come la mia grande passione per la filosofia, con l’intrigante derivazione della spiritualità e della metafisica, potesse alimentare la disposizione per la musica. L’una e l’altra, a ben vedere, sono stati i due binari dove passa ogni giorno il treno della conoscenza del mio Sè più profondo.
Ma in questa scuola mica c’era solo lui. Si, sicuramente quello a cui sono stato più legato è stato il tipo col naso grosso e la faccia da vecchia (che da anziano era diventata invece giovanile) ma di insegnanti ne sono passati tanti altri.
Nei miei vent’anni, quelli che a guardarli sembran pochi ma poi ti volti a guardarli e non li trovi più, ho seguito ogni lezione di Francesco De Gregori, dal quale ho imparato soprattutto il divertimento nel trasporre le figure retoriche tipiche della letteratura nella forma canzone e il valore, umano quanto artistico, della coerenza.
Ogni tanto passava un tipo che aveva sempre una sigaretta in mano, una voce calma e profonda e un gran senso dell’ironia: si chiamava Fabrizio De André e da lui ho imparato la cura meticolosa da utilizzare per la scelta delle parole. Sarà anche per questo che i fogli dove scrivo le canzoni devono essere pieni di spazi, perché per molte parole predispongo spesso varie alternative. E la scelta dell’una anziché l’altra è decisiva. Lui sentiva molto la responsabilità di quello che andava cantando e ne avvertiva il peso: “che poi i ragazzi ci credono”.
L’ha raccontato Ivano Fossati, altro gran frequentatore di questa fantastica scuola, dal quale ho imparato l’arte del tratteggio, il dettaglio cinematografico che si fa canzone, il saper unire la semplicità popolare e la complessità sperimentale.
E un altro tipo strano, Lucio Battisti, così strano da diventare l’assenza più presente della musica italiana, e che più faceva cose strane che molti giudicavano incomprensibili più a me cominciava a piacere; che all’inizio proprio no, con quei testi così scontati e melensi, ma capivo che in gioco c’era un grande musicista con un’anima latina. Ma poi, con Panella Pasquale, è stato tutto un altro giro.
Poi a un certo punto è arrivato il tipo della crisi esistenziale, quello che ti sconvolge le carte che credevi di avere messo in ordine, e tutto ti spariglia. Secco e scheletrico, allampanato, tortuoso e quando voleva dritto come un taglio. Si chiamava Giovanni Lindo Ferretti, già lo conoscevo ai tempi dei CCCP Fedeli alla linea, gruppo che solo dopo ho capito quanto sia stato importante, ma è con il Consorzio Suonatori Indipendenti e con il loro irripetibile primo disco, “Ko de mondo”, che a un certo punto tutto è cambiato. Da loro, ho ricostruito a ritroso tutta la storia dei CCCP e i primi album dei Litfiba, gemme pure, e la presenza sonora e regista di Gianni Maroccolo, un bassista il cui basso è molto più di un basso elettrico, è una vera e propria bacchetta da direttore d’orchestra. Bellissime anche le lezioni dell’intelletto fatto poesia e racconto, Massimo Zamboni, un chitarrista pensatore che ha sempre la parola giusta, e la visione che tutto racchiude. E chi si sarebbe immaginato che mi sarei divertito anche a fare il frontman degli In/Fedeli alla linea, la prima (no)cover band CCCP/CSI.
Spesso in questa scuola venivano anche tanti insegnanti stranieri.
Uno era un tipo alto quanto inquieto, e con dentro un gran senso della storia personale che si fa narrazione collettiva. Una narrazione che, a sua volta, si fa spettacolo crudo, duro, potente, emozionante, avvolgente. Si chiamava Roger Waters e ha fatto grandi cose sia da solo che con il gruppo con cui per vari anni ha suonato. Si chiamavano Pink Floyd, avevano un chitarrista fenomeno dell’espressività, David Gilmour, un tastierista che sapeva trovare gli accordi e le sonorità giuste e mai banali, Richard Wright, un batterista che faceva da collante tra le varie anime, Nick Mason, e sono stati fondati da un genio folle, Syd Barrett, il più folle di tutti. Da loro, come da Battiato (tanti secondo me i punti di contatto) ho imparato a rendere musicale l’arte del sogno, bello o incubo che sia, e soprattutto che con la musica si può viaggiare e far viaggiare.
Un altro aveva la faccia simpatica, madre italiana e modi affabulatori. Il palco era casa sua, così casa e così sua da stare male, ma di un male serio, quando era altrove. Si chiamava Bruce Springsteen, e da lui ho imparato la fisicità da tenere sul palco: l’ho studiato come nessuno, non tanto per le canzoni, ma proprio per quel suo modo empatico e sinceramente emozionale di stare sul palco per ore e ore e farle sembrare sempre troppo poche, anche quando erano quattro filate.
Poi ce ne sono stati tanti altri, dai grandi del passato (con una predilezione per un certo Beethoven e per un certo Mahler, passando per Faurè) ai grandi del presente (la fascinazione di Keith Jarrett, lo squarcio di Jan Garbarek).
E poi la sarabanda del Banco del Mutuo Soccorso e della Pfm, tutti i gruppi rock, prog, prog-rock, psichedelici degli anni ’70, che se dovessi nominarli (Genesis, Gentle Giant, Led Zeppelin, Tangerine Dream ecc.) si fa notte profonda; l’incisività del primo Venditti, la malinconia quieta e serena di Ivan Graziani; i tecnicamente inarrivabili Elio e le storie tese, che quando li sento suonare rido e mi commuovo allo stesso tempo, per quanto sono bravi; la traiettoria sghemba e pulsante di Garbo, gli anni 90 fatti di rock alternativo (italiano e non, come non amare gli Smashing Pumpkins?) e la nuova scuola di cantautori (il primo Gazzè su tutti, Fabi, Bersani).
E tanti altri ancora, alcuni di passaggio, certuni solo per una sera, ma indimenticabile, altri a intrattenermi e comunque insegnarmi qualcosa.
Insomma, capite che bella scuola io ho frequentato?
A un certo punto, presto senza essere troppo presto, ho cominciato anche io a scrivere canzoni. Ho fatto in tempo a suonarne qualcuna negli ultimi tempi del mitico Folkstudio di Roma.
E a un altro punto, tardi senza essere troppo tardi, ho deciso di pubblicarle, cercando di toglierle dall’alveo dell’episodico concertino fatto tra amici e per amici.
E il resto, soprattutto dal 2022, con qualche segno preparatorio prima, è stato un febbrile rincorrersi di progetti dove ho mescolato musiche, video, libri, testi teatrali, progetti di varia e mista natura, nella convinzione che le varie forme artistiche siano solo diverse angolature in cui si manifesta l’arte, che è un fenomeno unitario che può riassumersi nel tentativo di trasmettere, suscitare, esprimere, suggerire emozioni. Se poi proprio vogliamo essere più sintetici, l’arte ha una natura soprattutto evocativa: da qui, il mio nome d’arte, Evocante, perché tutto quello che faccio con i miei progetti artistici è finalizzato proprio a evocare qualcosa di immateriale attraverso mondi sonori, parole, filmati, immagini, percorsi consapevoli.